27/05/2014  |  
 
Redazione  |  
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Missione
Michele, Peppino e Damiano ci raccontano l'esperienza vissuta
Sono tornati da molto tempo, dal Kenya, ma negli occhi hanno ancora una luce speciale, contagiosa, che invita a chiedere di raccontare l’esperienza vissuta, anche se per breve tempo, lì nel continente africano.
Peppino (70 anni), come affettuosamente lo chiamano quanti collaborano con lui, Michele ( 47 anni) , catechista , Damiano (31 anni), parrocchiano. Insieme a don Paolo (37 anni), parroco di S. Maria di Sovereto in Terlizzi, hanno condiviso per 10 giorni un viaggio dal “sapore missionario”, nella diocesi di Marsabit dal 17 al 31 luglio dello scorso anno.
1. Come è nata l’idea di un viaggio in Kenya?
Michele: E’ una storia lunga! Diciamo che è nata quando ancora ero un ragazzo, don Paolo poi, qualche tempo fa, ha promosso quest’iniziativa e ho colto subito l’occasione per realizzare uno dei miei sogni.
Peppino: E’ stato don Paolo a propormi, 3 o 4 mesi prima del viaggio, di condividere con lui e altre persone questa esperienza, a cui non avevo mai pensato. A dire il vero avevo paura di lasciare la famiglia, di prendere l’aereo, paura di una lingua sconosciuta, ma don Paolo mi dato coraggio e così ho accettato. Nel gruppo di viaggio è nato immediatamente affiatamento, ciò ha contribuito a rasserenarmi!
2.Che cosa vi ha spinto a partecipare a questo viaggio dal “sapore missionario” e in che modo il vostro viaggio si è distinto da un semplice giro turistico?
Peppino: Il desiderio di fare un’esperienza non è stato l’unico motivo che mi ha spinto a partire. In un certo senso volevo rivivere quella povertà che da bambino ho conosciuto, come tanti altri della mia età. Ero anche curioso di vedere i luoghi in cui don Paolo ha lavorato come missionario, quasi a voler verificare quanto da lui raccontato.
Sapevamo sin da subito che quello non sarebbe stato un viaggio turistico. Abbiamo avuto occasione di visitare molte missioni in scenari naturali magnifici, ma in condizioni estremamente disagiate. Senza missionari le centinaia di bambini, le popolazioni autoctone, affascinanti nei loro abiti, sarebbero state completamente abbandonate.
Michele: Non si può proprio parlare di viaggio turistico, e lo sapevamo! il Kenya turistico è diverso, abbiamo visto la realtà, abbiamo assaporato poco di quella realtà e per un tempo troppo breve, perciò non me la sento di definirlo nemmeno missionario.
Direi, piuttosto, un viaggio di apertura, conoscenza di un mondo visto solo attraverso documentari in TV.
3.Nel vostro immaginario come era l’Africa e come si è presentata ai vostri occhi? Quali le difficoltà oggettive da subito riscontrate?
Peppino: La immaginavo povera, ma non a quei livelli. Ho visto diversi villaggi, percorrevamo a volte anche 400 Km al giorno. Nairobi, la capitale, è ricca e lussuosa, ma non immaginavo di vedere in periferia le baraccopoli, le strade piene di rifiuti, non asfaltate e polverose.
Michele: Immaginare l’Africa non è possibile! La immaginiamo in base a quello che vediamo e ascoltiamo; quello che si è presentato ai nostri occhi, non si vede e non si racconta in T.V. Io pensavo di vedere villaggi, deserti, acacie! Non credevo possibile di visitare anche un’ Africa occidentalizzata, quella di Nairobi; il resto, la povertà, non si riesce neanche a raccontare, bisogna viverla. Ho avvertito la crudeltà dell’impatto. I disagi sono stati molti, sicuramente non ero molto preparato. Sapevo di rinunciare alle comodità, ma non fino a quel punto!
4.Spesso si hanno molti pregiudizi nei confronti delle missioni. Perché e cosa direste a chi mette in dubbio l’impegno quotidiano dei missionari.
Michele: I pregiudizi nascono quando una realtà è sconosciuta, quando non si sa quello che si fa. Se provassimo ad aprirci, anche solo per conoscere meglio il mondo delle missioni, i pregiudizi smetterebbero di scegliere per noi.
I missionari non fanno nulla di diverso rispetto a noi, ma lo fanno con semplicità, sono diversi dai sacerdoti delle nostre diocesi, sono eroi. Non è facile vivere la missione se non si è accompagnati dallo Spirito Santo.
Peppino: I missionari devono lottare con tutte le loro forze per raggiungere gli obiettivi.
Penso che debbano avere sopportazione, coraggio anche per affrontare le tante malattie e carisma per “educare” le tribù, preservando le tradizioni.
C’è tanto da fare! Nel deserto ci sono tanti nomadi, ogni 30 km se ne incontrano sul percorso. La vita nelle capanne non è semplice, hanno solo l’essenziale, i letti e nemmeno tanto comodi! La cucina, fatta su legna ardente, è fuori, il cibo varia pochissimo e generalmente consumano sempre riso, latte di asino, capra o cammello. A volte anche carne.
Damiano: Contro i pregiudizi posso dire che, al ritorno, ho portato con me una nuova esperienza, formativa. Sembra che Dio si sia dimenticato di quel posto. Ho lasciato in Africa la loro cultura che non si può cambiare, nemmeno i missionari possono farlo. Lì, vivono giorno per giorno.
5.Perché consigliereste a qualcun altro di fare quest’esperienza?
Damiano: Perché aiuta a rendersi conto di quanto abbiamo qui; noi sprechiamo, loro hanno appena l’essenziale per sopravvivere. Hanno cose che noi importiamo qui, ma in alcuni villaggi non sanno nemmeno si producano, molti non sanno leggere, magari hanno i telefonini, ma non le strumentalità. Il compito dei missionari è educarli, ma non è sempre facile. Un missionario italiano raccontava che spesso queste popolazioni non sono in grado di camminare da sole e quello che viene costruito, senza l’aiuto delle professionalità, dei laici, dei missionari, viene abbandonato.
Michele: Io la consiglierei perché forma spiritualmente ed educa anche dal punto di vista emotivo. Sembrerà un sciocchezza, ma per 20 giorni, dopo il mio arrivo, ho rinunciato ad utilizzare profumi per il corpo, perché lì ho potuto sentire l’odore della mia pelle, qui dobbiamo quasi “camuffarci” per essere sempre al top.
Peppino :Inviterei i giovani ad andare in Africa. In Italia, nonostante la crisi, c’è troppo benessere e ci si permette di decidere tra ciò che si vuole o non si vuole, lì non c’è scelta. L’esperienza insegna ad accettare anche ciò che non piace, a considerarne la bontà.
Damiano: Cerco di spiegarlo con un semplice aneddoto: una sera ci siamo recati al ristorante, in realtà era una baracca adibita a ristorante, piena di polvere e di gente che sputava per terra nonostante l’espresso divieto. Abbiamo ordinato del pollo, ma ci hanno servito scarti di polleria… la fame ci ha obbligati a mangiare!
6. Perché i sacerdoti dovrebbero vivere quest’esperienza?
Michele: Perché farebbe bene, almeno una volta l’anno! Perché è un viaggio che impegna lo spirito, la mente , il corpo. Alle 5.45 del mattino i sacerdoti si riunivano già in preghiera, con grande raccoglimento.
Peppino: Sarebbe positivo per loro lasciare il benessere che hanno qua, compresi i paramenti sacri di lusso, lì si celebra con pochi orpelli, sono sacerdoti anche con poco. Anche don Paolo era diverso, ed io pur non capendo nulla di Inglese e K-swahili, notavo che tutti erano attenti e la gioia dell’incontro col Signore si esprimeva con i canti. Mi è piaciuto moltissimo partecipare, la Messa è durata un’ora e mezza, ma nessuno era stanco. È da vivere.
Damiano: I preti dovrebbero vivere un’esperienza del genere, però devono prima crederci e non pensare che possa essere un rifugio per sfuggire al mondo, se così non fosse distruggerebbero se stessi e gli altri.
Anche lì ci sono sacerdoti che fanno fatica a vivere in quel modo. Si costruiscono intorno il loro mondo personale, ogni diocesi a volte è il riflesso dei sacerdoti chi ci sono. A Dirigongo c’è la vera realtà africana. Il sacerdote deve essere bravo a non fare troppa differenza tra la propria vita e il popolo affidatogli, non deve dominare. Non può vivere per sé la ricchezza all’ interno del proprio habitat e scontrarsi con la povertà dilagante che è fuori.
Le parrocchie sono piene di gruppi, molti dei quali attivi solo entro i confini della propria chiesa. A questo proposito state progettando la nascita di un nuovo gruppo, potete dirci qualcosa?
don Paolo: La nostra parrocchia è già attiva in questo senso. Ci sono 50 famiglie che provvedono alle missioni, dandoci aiuto finanziario. Stiamo, infatti, partecipando alla costruzione di una scuola nella diocesi di Marsabit.
Il viaggio in Kenya, con questo gruppo di laici, è nato dal desiderio di far toccare con mano che cose grandi, quali piccoli miracoli, il cristiano può fare sostenendo le missioni, non solo finanziariamente, ma anche con la preghiera.
Con ciò non voglio dire che tutti debbano vivere una così forte esperienza, ma mi auguro che con la testimonianza si possa almeno suscitare interesse e curiosità per questo mistero che già padre Michele Catalano aveva cominciato a svelare con il suo risaputo impegno missionario. Auspichiamo che i laici continuino il loro cammino nella formazione di un gruppo missionario che prenderà più a cuore la situazione dei nostri fratelli africani, anche in una rete di relazione interparrocchiale cittadina e in vista dell’imminente mese dedicato alle missioni nel mondo.
Grazie per le vostre testimonianze e il vostro impegno!
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